lunedì 12 gennaio 2009

Factums – The Sistrum/A Primitive Future lp

Tra i gruppi che hanno caratterizzato il 2008 un posto di rilievo è occupato sicuramente dai Factums, trio wave da Seattle titolare di almeno un paio di uscite lunghe memorabili.
Dopo l’accoppiata del 2007 – l’esordio omonimo per Siltbreeze che rieditava un cd-r homemade e Spells & Charms per Kill Shaman – l’anno appena trascorso ha visto altre due release lunghe, ovviamente entrambe in vinile, per Sacred Bones e la neonata Assophon.

In tempi di elefantiaca sovrabbondanza discografica, però, non sono tanto le uscite a segnare la specificità dei Factums, quanto quell’etica/estetica retrofuturista che Dan Strack, Jesse Paul Miller e Matthew A. Ford mettono in atto con estrema nonchalance e che trova la sua sublimazione nella colonna sonora immaginaria A Primitive Future.

Andando con ordine, è The Sistrum a vedere per primo la luce. Incastonato in una delle stupende cover della Sacred Bones – gente che conosce bene il significato di estetica – deforma ancor di più i territori instabili percorsi nei dischi precedenti. Una wave smostrata, mutante, arcaicamente futurista e fieramente spastica che se ne fotte altamente di forma-canzone e linearità espressiva. Che passa cioè attraverso i paludosi lidi di industrial-music e immaginario sci-fi, San Francisco fine ’70 e Inghilterra grigia e cementizia (grossomodo Sheffield), wave che più out non si può e dilatazioni da america weird noise, approssimazioni garage-oriented e rumorosissime escursioni shitgaze.

A Primitive Future è invece la colonna sonora per un film inesistente che acuisce ancor di più la tendenza sperimentale del trio, frammentando lo spettro sonoro in una disomogeneità che dagli schizzi sotto il minuto arriva ai 12 minuti della suite di Looking For The Armpit Of A Snake. Stranamente però la coesione dell’album resiste alle fratture imposte dai tre e l’andamento da buco spazio-temporale del suono è tipicamente riconoscibile come Factums. Quello cioè di una attitudine, anzi di una predisposizione al weird che fa assurgere il trio al ruolo di improbabile mix tra Chrome, Dead C e Residents proveniente, nella migliore delle ipotesi, da Marte. Dall’inferno, nelle peggiori.


lunedì 5 gennaio 2009

Cold Cave – Painted Nails 7”

Da un’etichetta come la Hospital, di proprietà di Dominick Farnow, meglio noto come Prurient, con un catalogo con nomi come Kevin Drumm, Wolf Eyes e, appunto, Prurient cosa ci si potrebbe aspettare? Basse frequenze apocalittiche, harsh noise disturbante, fiumi di rumore bianco. E invece sepolto sotto i rivoli cangianti di questo piccolo vinile che è il primo lascito a nome Cold Cave si nasconde una sensibilità dark-synth-wave cui molti recentemente sembrano essersi immolati.
Buon ultimo Wesley Eisold, titolare (apparentemente unico) della cava, agitatore della scena weird di Philadelphia, condirettore di Heartworm Press e con trascorsi più o meno noti nel sottobosco hc-noise americano con Some Girls e altre mille bands.
Un gusto retro-futurista avvertibile sin dall’opener Sex Ads, nonostante i primi secondi di pura distorsione in white noise indirizzino verso tutt’altri lidi consoni all’etica/estetica dell’etichetta. Ma l’attenzione, la fascinazione di Cold Cave per un passato minimal-wave ossessivo e lancinante si reitera a pieno titolo nella pioggia di synth old-fashioned della conclusiva Always Someone. Il tutto, ovviamente, sempre trattato con delicatezza harsh.
Dopotutto, I’ve Seen The Future And It’s No Place For Me non è una canzone, ma una dichiarazione d’intenti.

venerdì 12 dicembre 2008

Cave & California Raisins – Split 10”

Tornano a stretto giro di posta i chicagoani Cave, beniamini di Aquarius e già presenza gradita su queste pagine col 7” per Trensmat. Ora qui allargano lo spessore del vinile e si accompagnano ad un’altra combriccola di fuoriditesta, gli sconosciuti California Raisins da Columbia, Missouri. Che, detta da subito, tengono botta in maniera superba.

Una manciata di minuti di feroce battagliare a suon di psichedelia kraut pompatissima e drogatissima divisi equamente a metà tra Cave side e Cali side. Circolare e possente, reiteratamente ossessiva, con una densità incredibile, con un suono grasso, tondo, nerboruto più incline al rock nei primi (lo sparato riff funk-psych di Ravenshash) e al punk nei secondi (Two), ma sempre, continuamente, ineludibilmente tendente al groove di stampo psichedelico.

Dopo l’ottimo full-length Hunt Like Devil/Jamz sempre su Permanent, e il 7” Butthash i Cave arrivano al terzo centro pieno. E se tre indizi fanno una prova…

California Raisins dal canto loro sono una sorpresa piacevolissima, di quelle che riappacificano col mondo. Perché quando si sente un crescendo spacey tanto semplice e minimale come nei minuti iniziali di Three smostrarsi in un baccanale urlato, ossessivo e feroce, beh, c’è poco da fare se non sperare che pubblichino a breve qualcos’altro.


martedì 9 dicembre 2008

Thee Oh Sees / The Intelligence – Split 12”

Amici lo sono da tempo. Spiriti affini, anche, a giudicare da iconoclastia e volumi. A memoria però non si ricorda una collaborazione o un progetto insieme. Questo 12” prodotto da Mt.St.Mtn colma così una lacuna nelle sterminate discografie di John Dwyer (Coachwhips, Pink & Brown, Hospitals, ecc.) e Lars Finberg (A-Frames su tutti). Un lato per uno e passa la paura. Il lato A vede gli Oh Sees proporre un paio di outtakes dallo splendido The Master’s Bedroom…: sorta di rockabilly psych, tambureggiante ed incisivo, Inquiry Perpitrated mostra la stratificazione chitarristica e gli intrecci vocali male/female che impreziosivano l’album, mentre Mincing Around The Frocks è un ritmato rock alla Velvet rinchiusi a forza dentro un sottoscala e gonfi di anfetamine.
Le cose si ispessiscono nel lato B quando a prendere il sopravvento è il lerciume garage degli Intelligence che si muovono as usual con grazia pachidermica su terreni da rock cataclismatico e in ultra lo-fi. Bulbs e Witchworld sono due schegge di garage squassato e slabbrato per chitarre-stiletto e voce megafonata in cessofonia, mentre la lunga Sunny Backyard è un carrarmato distorto in ogni sua componente che sembra i Liars in versione garage-psychotica. Consigliatissimo, ovviamente.

mercoledì 3 dicembre 2008

Bosom Divine – I’m Your Animal 7”

I don’t wanna waste my precious time…cantano i Bosom Divine nel lato A di questo sfizioso 7” e ci sentiamo di concordare da subito: non è affatto una perdita di tempo mettersi ad ascoltare le due brevi gioie che questo progetto francese imparentato coi fantastici Cheveu ci offre come debutto.

Garage-pop a manetta, supermelodico e catchy, roba che si appiccica in testa e che ci si ritrova a fischiettare con una espressione tra l’ebete e il bambinesco.

I’m Your Animal – di cui esiste un esilarante video b/n dall’alto potenziale sci-fi cazzone disponibile sul sito della Les Disques Steak – è sparata dritta in faccia con una chitarra pulita e una voce irresistibile, stacchetti mozzafiato e coretti spastici. La controparte Hangover (German Beat) non è da meno nel suo procedere elementare eppure irresistibile: quasi funk-wave ma poppyssima.

Da cercare assolutamente insieme al debutto lungo su Dead Bees, per capire cosa sta succedendo alla Francia undeground.


sabato 29 novembre 2008

Wavves – Beach Demon 7”

Ghiotto antipastino per l’album d’esordio di Wavves questo 7inch, ennesima prova della deturpata america underground. Lo-fi psycho-pop a go-go, maciullato e abbrutito come da manuale per cui vale lo stesso discorso fatto per Blank Dogs e Dead Luke, tanto per fare due nomi. Solo che se lì veniva preso a riferimento il mondo del synth-pop figlio della wave più sinistra, qui è il bubblegum-pop ad essere oggetto di violenza.
In queste due tracce però convivono i due stati d’animo di Nathan Williams, titolare del progetto: se la spiaggia di Beach Demon lo rende euforico e sbroccato, pronto a far sfracelli a colpi di muscolarità spastica, l’erba di Weed Demon lo atrofizza in una sognante e poppissima nenia.
Il bello è che se si ripulisse la prima dalla melma no-fi e dalla patina di iconoclastia adolescenziale che la avvolge, il risultato non sarebbe poi tanto lontano dalla seconda.

mercoledì 12 novembre 2008

Los Llamarada – Against The Day 7”


Il bello della globalizzazione e del 2.0, in definitiva, è che il mondo musicale non conosce più confini. Ecco così che ci si ritrova tra le mani un gruppetto messicano che si rifà ai suoni americani più europei ed esce per una piccola etichetta italiana. E che a dirla tutta è pure un bel sentire.

Quintetto garage in partenza, questi Los Llamarada da Monterrey sono influenzati nello stesso tempo dallo Jodorowsky di El Topo e dai Fall, dai Bauhaus e dal make-up della spagnola Alaska.

I tre pezzi del 7” uscito per AVANT! smembrano le coordinate garage-punk di base virandole verso lidi lo-fi (la registrazione live su tape volutamente in cessofonia), escrescenze noise (il catalogo Siltbreeze è più di un referente nella de-strutturazione dei pezzi), rigurgiti psych e attitudine a metà tra il ludico e l’iconoclasta.

Non hanno forma compiuta né sembrano esservi interessati; mischiano tutte le disparate influenze in uno shaker e le vomitano su chi ascolta incuranti di scene ed etichette, oltre che delle buone maniere musicali.

L'ennesima dimostrazione di quanto sia importante la cosiddetta periferia nello sviluppo di certi suoni, ehm, di confine.


lunedì 10 novembre 2008

Compoundead – Viscera cs


Esiste una scena noise in Italia? La risposta è sì, anche se il concetto di scena al tempo del 2.0 è decisamente anacronistico e fuori luogo.
Compoundead è dimostrazione pulsante dell’eterogeneo insieme di realtà (due per tutte, Dokuro e 8mm) che dimostrano di aver assorbito certi insegnamenti americani legati al nuovo d.i.y. di matrice noise. Ma attesta anche la vitalità di una periferia che, giocoforza, aveva fatto dell’autoproduzione “punk” non solo il segno della propria integrità fiera e incompromissoria, ma anche la forma espressiva genuina e viscerale del proprio essere contro.
Nello specifico, Compoundead è emanazione dell’Onza’s fratellanza: Massimo (responsabile di MammaMiaQuantoSangue) e la sorella Mara oltre a mantenere in vita l'etichetta di famiglia MastroTitta, armeggiano incazzati con microfoni, microfoni a contatto, effetti, bassi trattati e chissà quant’altro cercando (e riuscendoci) di unire il noise brutale che da MB arriva fino a Wolf Eyes con una attitudine in partenza punk.
Musica da cameretta per noisers antropofagi? Punk d.i.y. post-tecnologizzazione di massa? Quale che sia la definizione che più vi aggrada, sappiate che i due lunghi pezzi della bellissima k7 rossa – l’omonimo sul lato A, Black Milk sull’altro – non si perdono mai in lungaggini pretenziose o autoreferenziali che di solito sono le pecche di un certo tipo di suoni; ma anzi spingono verso una sorta di trascendenza ipnotica niente male.

sabato 8 novembre 2008

Trensmat Special part II: Cheval Sombre – I Sleep 7”

One-man project da NY, Cheval Sombre si muove delicato e soffice su territori da shoegaze alieno, drogato e slow.
La title track è servita sul vinile in due tranche – la Alpha Waves sul lato A e quella Delta sul B – ed è un tenue e astratto dream-pop lunare che si regge su una texture filamentosa e ascendente. Dreaming and waveing, quale testimonianza del lato più evanescente dell’animo Trensmat.
Nel cd allegato, oltre alla versione full di I Sleep che una volta riunita dilata ancor di più la sensazione slow-soporifera from outer space del vinile, ci sono come sempre tracce esclusive. Strangest Though (Holy Mix) vede alla produzione sua santità Sonic Boom in persona, tanto per stabilire padri putativi ed eredità evidenti. Trance in reverse, sinuosa e ipnotica come da manuale che si muove su una ipotesi MercuryReviana di primo periodo (da Yerself Is Steam/Lego My Ego nello specifico) per quasi 8 minuti, con variazioni quasi impercettibili. Il remix di Troubled Mind – opera dell’ex Luna Britta Philips – è invece una gemma bucolica fatta di elementari arpeggi in sospeso equilibrio e di una voce a dir poco cristallina.
Per quel che mi riguarda, secondo colpo su due dopo i Cave; proposte magari antitetiche ma che per certi versi sottolineano aspetti e sensibilità comuni nel catalogo Trensmat.
Dopotutto come dicono da quelle parti, every noise has a note.

venerdì 7 novembre 2008

Trensmat Special Part I: Cave – Butthash 7”


Sono etichette come l’irlandese Trensmat che fanno la gioia di chi ama il vinile. Gente che la musica la preferisce in vinile, sonically & aesthitically. Pertanto solo 7” in edizioni curatissime, molto spesso coloured e sempre in edizioni limitate. L’ambito stilistico è grossomodo spacey, dato che le uscite Trensmat indagano quella terra di nessuno posta tra drones, noise e shoegaze. Mentre è in lavorazione un tributo agli Hawkwind in 3 split 7” (con Mudhoney, Acid Mothers Temple e Kinski, tra gli altri), le ultime due uscite sono a nome Cave e Cheval Sombre.
I Cave sono una formazione da Chicago (dovrebbero essere un duo ma a occhio e croce potrebbero essere molti di più) che rielabora in forma altamente tribale e post il kraut made in Deutschland. Groove infiniti, spaziosi e spaziali, materici nel loro incedere energico e muscolare che rimandano indistintamente a funky e wave. Roba che avrebbe ancor più senso se i solchi del vinile non finissero dopo pochi minuti ma si espandesse all’infinito. Pensate ai Circle meno coatti che giocano a fare gli Hawkwind seduti intorno ad un drum-circle e forse ci sarete vicini.
Nel cd allegato, nella miglior tradizione della casa, oltre alle viniliche Butthash e Machines & Muscles, trovate altri due pezzi (brevi, troppo brevi!) e un video per la title track che evidenzia il lavoro sui visuals che una musica del genere giocoforza necessita.

martedì 28 ottobre 2008

Austerity Program – Song 20 (The River) 7”


Sono in due. Sono di stanza a NY. Suonano basso e chitarra e si accompagnano ad una batteria elettronica.
Il loro sogno più segreto? Essere i nuovi Shellac. Anzi, a dirla tutta, essere la reincarnazione dei Big Black. E se le band di sua santità Steve Albini mettevano in scena le perversioni della provincia americana, questi sono un passo avanti, essendosi dati un nome a dir poco lungimirante. In merito al prossimo (già avvenuto?) crollo dell’economia americana (mondiale?) e al ruolo di moderne Cassandre dei due newyorchesi rimando alle lucide disamine postate qui, sul proprio sito.
Per la musica, beh, il nauseante senso ultimo della loro musica è martorizzare i Big Black in chiave industrial. Ossessività ancor più accentuata, ritmiche marziali e asettiche, sfasamenti strumentali asfissianti, una voce indolente fino allo stremo che si trasforma in urla senza speranza. Questo è Song 20, lato A di questo vinile.
Il lato B è ancora più straniante: Song 1 (le loro canzoni sono tutte in formato alfanumerico) è infatti uno strumentale fatto di stop’n’go furiosi e stratificazioni di distorsioni, degno erede delle più eccitanti esperienze noise-rock anni 90.

martedì 21 ottobre 2008

A Place To Bury Strangers – I Know I’ll See You 7”

Riemergono i peggiori incubi shoegaze con questi newyorchesi amanti della distorsione. Nulla di nuovo sotto il sole del rock, l’unione di melodie e rumore. Ma questi newyorchesi vanno decisamente oltre meritandosi, almeno così si dice in giro, il titolo di loudest band in NY.
In occasione della ristampa, con bonus, dell’omonimo esordio, la Rocket Girl mette fuori questo 7” limitato e double a-sided in bellissimo color arancio che prevede un estratto dal suddetto album, la title track, e la sua versione remix ad opera di Clapp.
C’è tutto il mondo del trio – al secolo Oliver Ackermann (voce, chitarra), JSpace (batteria), Jono Mofo (basso) – nei quattro minuti di questa I Know I’ll See You: indolenza melodica da periodo d’oro della Factory affogata in un trionfo di riverberi, batteria simil-elettronica e in echo perenne, fischi di ampli a manetta unite a oscurità Cure prima maniera e stratificazioni di feedback à la Jesus & Mary Chain.
Sul lato AA il trattamento in remiscelamento cui viene sottoposta la stessa traccia ne sviscera tutto il potenziale catchy. Una volta depurato dal macilento wall of sound, il risultato si avvicina pericolosamente al synth-pop, come fosse una versione perversamente anni 00 dei Depeche Mode cresciuti nella Bowery.
La differenza con molti epigoni dello shoegaze chitarristico tutto distorsione e feedback è tutta qui: questi sanno scrivere canzoni.

His Electro Blue Voice – Duuug 7”

Tornano e spopolano gli italici His Electro Blue Voice da Como-Bologna. Discograficamente piuttosto parchi – questa è la loro terza release, tutte rigorosamente in 7” – non lo sono dal punto di vista qualitativo. L’esordio vide la luce tempo addietro per l’americana S-S, mentre lo split con Nuit Noire era una parentesi “casalinga” (a pubblicare era la AVANT! del batterista Andrea); ora Duuug esce per l’etichetta più chiacchierata del momento, la Sacred Bones di Caleb – uno che scopre talenti del calibro di Blank Dogs e Pink Noise. Come a dire, pochi ma buoni e molto considerati soprattutto oltreoceano.
Ma cosa ha questo trio di peculiare da attirare tanta attenzione? Innanzitutto, giocano di contrasti con l’hype underground del momento, quello shitgaze che ripropone ancora una volta l’utilità delle definizioni fantasiose. E lo fanno appropriandosi sì dell’essenza di quel suono, il no-fi, ma piegandolo al servizio di una proposta dopo-punk fino al midollo. Che a grattare bene è ciò che sta dietro gli ascolti di molti dei gruppi accomunati a quella odiosa definizione: primo post-punk anglosassone dai Warsaw in giù.
Duuug sul lato A non mancherà di catturare cuori e diffondere il culto sull’onda di una dark-wave a tratti irresistibile, mentre Fury Eyes col suo incedere a scatti ne è degno contraltare e li avvicina pericolosamente a certe band di metà anni 90 in fissa col declinare in chiave noise le prerogative della dark-wave più reietta.
L’etichetta lo da già come sold-out – almeno alla fonte – ma a cercare bene qualcuna delle 500 copie tirate potrebbe uscir fuori.

lunedì 13 ottobre 2008

Xiu Xiu & High Places – Split 7”

Mr. Jamie Stewart non è mai stato parco di uscite minori coi suoi Xiu Xiu. Così come non si è mai sottratto al ruolo di sostenitore di piccole etichette o scene latamente altre rispetto alla visibilità di cui godono Xiu Xiu.
Ecco insomma l’ennesimo 7” della carriera del nostro, stavolta fuori per una piccola ma agguerrita etichetta, la
Aagoo. In questa occasione Xiu Xiu fornisce una infestata Kitten Revolution, scarto – per modo di dire – dall’ultimo Women As Lovers: svisate di sax impazzito, punteggiature di batteria e aperture strumentali free-cacofoniche assecondano una declamazione ora sussurrata, ora spiritata per un pezzo che nulla ha della b-side.
A dividere lo spazio del 45 giri è la premiata ditta Robert Barber-Mary Pearson, al secolo High Places col consueto effluvio di ninnananna ambient e afro-beat in stand-by compressi nei 4 minuti di Oceanus. La signorina ci mette una voce che definire eterea è poco; l’uomo dal canto suo percuote e campiona, cuce e incolla. Insieme producono una delle musiche più interessanti ascoltate ultimamente.
Nota di merito, per l’artwork. Bellissimo nel suo minimalismo frutto di 1000 scatti di polaroid opera di David Horvitz, fotografo ed artista sotto la cui supervisione sta uscendo una serie di 6 picture 7” con gente del calibro di Parenthetical Girls, Abe Vogoda, Mika Miko.

domenica 12 ottobre 2008

Titmachine – Wir bauen einde neue Stadt 7”


Se l’emerita Siltbreeze torna a pubblicare un 45 giri dopo 11 anni un motivo ci deve essere. E noi, dopo aver ascoltato questo vinilino, ci rendiamo conto di aver fatto bene a fidarci. Dopotutto mr. Siltbreeze, al secolo Thomas Lax, è da molti additato come colui che ha contribuito in maniera determinante a lanciare il fenomeno shitgaze, perciò – nonostante la pochezza della definizione conviene fidarsi, no?.
4 girls, no wave. Questa la lapidaria introduzione che offrono le Titmachine di loro stesse sul myspace. Cosa possiamo aggiungere se non che sono olandesi (grosso modo), piuttosto piacenti e decisamente molto più ostiche di quello che potremmo aspettarci dal termine no-wave oggigiorno?
Ossessive. Ritmatissime. Slabbrate. Fomentate da un isterismo afasico e da un umore ondivago e alla cartavetrata come solo poche bands hanno saputo dimostrare. Sul lato A riesumano un pezzo di Palais Schaumburg, Wir Bauen Einde Neue Stadt, ne ripuliscono le tendenze funk-wave e dancey e lo trasformano incattivendolo fino alla morte. Il titolo – We Build A New City, vi ricorda nulla di molto rumoroso? – diviene un anthem da urlo, la musica un incessante chiamata alla ribellione. Sull’altro lato non è da meno 1989 col suo incedere dissonante e marzialmente no-wave. A breve dovrebbe tornate in stampa l’omonimo 7” d’esordio su Mueew Muzak. Cercarlo è d’obbligo.

lunedì 6 ottobre 2008

Nice Face – Thing In My Head 7”

Va di moda l’agire in solitario ultimamente. E magari anche in modalità faceless. Che sia una sorta di ribellione allo status quo del mondo nell’era dell’ipervisibilità? Un apparente smarcarsi da un mondo, quello del 2.0, che viceversa contribuisce in maniera fondamentale a amplificarne la proposta?
Sia come sia, alla Sacred Bones sembrano essere ben felici di avere in catalogo gente che oltre a dilettarsi in solo, si ammanta anche di una neanche tanto velata aura di mistero. Blank Dogs è il caso limite, ma anche questo Nice Face non scherza in quanto a nascondismo. Ne parliamo al singolare perché ovviamente di one-man project si tratta e questo Thing In My Head ne segna l’esordio
Costruite su un asse spostato prevalentemente sulle chitarre piuttosto che sui synth demodé di mr. Blank Dogs, i due brevi pezzi in questione si appiccicano in testa con chirurgica facilità: con incidere cavernoso e in perpetua modalità echo genuinamente ’80 l’omonimo pezzo sul lato A; con un midtempo movimentato e storto, groovey a palla nel suo irresistibile coretto spastic-pop la Hidden Automatic dell’altro lato. Ma è principalmente la (le?) chitarra a graffiare nel lerciume in bassissima – quasi nulla – fedeltà nel quale sono ammantate le delizie pop di canzoncine orecchiabilissime.
È ormai appurato. C’è una genia di solitari che ama giocare coi peggiori incubi lo-fi che l’America abbia mai creato. Chiamatelo bedroom-punk se volete. Il risultato non cambia.

venerdì 3 ottobre 2008

Various Artists – Recovery 10 x 7” box set

Nel variopinto mondo del vinile a 45 giri può succedere veramente di tutto. Mi spiego meglio. L’agilità del medium unita alla relativa settorialità del supporto – indirizzato a fan appassionati piuttosto che alla grande massa di consumatori di musica – ne ha da sempre permesso un utilizzo particolare, come una sorta di laboratorio per sperimentazioni, ricerche, prove estemporanee.

Il box set pubblicato dalla Fractured – 10 piccoli vinili double A side, un lato per gruppo/artista – supera però ogni immaginazione, pur nella semplicità, quasi ovvia, della idea di partenza: mettere a confronto iconoclasti artisti elettronici e materia rock. Anzi, mettere in mano a gente come Mika Vainio, Alva Noto, Fennesz, Ryoji Ikeda, Matmos, per non parlare di santoni di estrazione industrial come Carter Tutti, :Zoviet*France e J.G. Thirlwell, un ampio ventaglio di pezzi genericamente rock/new wave scelti dai medesimi.

Il risultato? Una bomba. Per la serie, avete mai provato ad immaginare cosa può diventare la Hunting High And Low degli A-Ha in mano a uno come Fennesz? Una caligine iridescente che si muove a folate noise prima di un incedere quasi epico. Oppure la famosissima Warm Leatherette in mano a mr. Foetus? Un demoniaco blues-industriale incattivito fino alla morte. O ancora, come immaginare la My Sharona che fu dei Knacks trasformata in una nenia post-mortem da Susan Stenger o il Bowie di Ashes To Ashes fratturato dagli screzi rumoristi di Momus & Germlin?

I 20 pezzi di questo box sono dimostrazioni di come la musica, qualunque sia la provenienza e stante la creatività del rielaboratore, si presta da sempre a rimescolamenti, frantumazioni, riscritture anche radicali senza che a perderne sia il risultato finale.

Palma di miglior esempio per questo ragionamento va senza ombra di dubbio a Ryoji Ikeda e al trattamento al quale sottopone un pezzo come Back In Black: mantenendone apparentemente intatta l’ossatura, lo devasta dal di dentro a base di merzbowiani flussi di rumore bianco.


Tracklist:


1) BJNilsen – Heart and Soul (Joy Division) / People Like Us & Ergo Phizmiz – Mull of Kintyre (Wings)

2) Fennesz – Hunting High And Low (A-ha) / :Zoviet*France: – Bomber (Motörhead)

3) Ryoji Ikeda – Back In Black (AC/DC) / Mika Vainio – Running Up That Hill (Kate Bush)

4) Robert Henke – Lucifer (Alan Parsons) / Susan Stenger – My Sharona (The Knack)

5) Jenny Hoysten's Paradise Island – Dream Tree (Buffy Ste. Marie) / Alva Noto – Planet Rock (Afrika Bambaata)

6) Matmos – C30, C60, C90, Go!( Bow Wow Wow) / Barbara Morgenstern – Temptation (New Order)

7) Carter Tutti – Lucifer Sam (Pink Floyd) / Robert Lippok and Caroline Thorpe – Freedom! '90 (Wham)

8) Snd – Billie Jean (Michael Jackson) / Richard Chartier and CoH – Bleak is My Favourite Cliché (Soft Cell)

9) Momus and Germlin – Ashes To Ashes (David Bowie) / Jason Forrest – Damn Love (10cc)

10) J.G. Thirlwell – Warm Leatherette (The Normal) / Jóhann Jóhannsson – Souvenir (OMD)


giovedì 2 ottobre 2008

Dead Luke - Record One 7"

Programmaticamente chiamato Record One per distinguerlo dal Record Two di prossima uscita (evviva l’originalità!), questo piccolo pezzo di vinile a nome Dead Luke è quanto di meglio uscito sul versante minimal-synth-punk nell’ultimo periodo.
Emersi dalla melma pop-putrescente della Sacred Bones Records, i due pezzi sono un concentrato di synth-pop da cameretta deviato verso il punk più minimale ed eterodosso.
Il lato A deforma in chiave goth-punk un classico dei Troggs, I Want You, lo rigira dal di dentro, lo rivolta fino a farne un delirio fantasmatico modello Sisters Of Mercy in acido.
L’altro lato è ad appannaggio di Waste Of Spaces, in cui grumi di synth si abbarbicano gli uni sugli altri sostenuti da un beat sintetico acido e malridotto. come nella migliore tradizione della Grande Triple Alliance Internationale de l'Est. A far da collante sempre la voce del misterioso e solitario Luke: lugubre, effettata, distorta eppure sempre malinconicamente pop.
A impreziosire il gioiellino l'artwork di Mike Sniper, artista feticcio della Sacred Bones.

martedì 30 settembre 2008

Mahonies – Hey We Got Coneys. It’s Great! Let’s Dig In! 7”


8 pezzi in un 45 giri? Beh, sì, visto che c’è stato chi ha fatto (molto) di peggio in ambiti estremi. Di certo c’è che quelle dei Mahonies sono brevi schegge di proto-punk affilatissime, spastiche e depravate. Sommerse dal rumore, ovviamente. Sono in due, Craig Brown (batteria) e Ian Lannen (chitarra), cantano entrambi, sono di Detroit e hanno delle fisse decisamente strane: la prima è suonare in giro senza essere invitati – e questa è quasi comprensibile, suonando una specie di garage sfasciato. La seconda è alquanto più strana e preoccupante: stanno in fissa con hot dog e salsette, tanto da farci un artwork intero (fumettistico sul davanti; fotografico sul retro) e dedicargli pure qualche canzone come House Of The Mustard Sun (“Chili Mustard Onion and the Hot Dog Bun…Coming to your town gonna have some fun…Throwing chili-cheese at the mustard sun…Mustard sun”, questo lo splendido testo).

Dopotutto l’America non è il posto migliore per mangiare sano, no?

La musica, poi, viene di conseguenza. Brevi schegge di articolato garage-punk che non superano mai il minuto e mezzo, condite di grande ironia (8 full length songs! recita lo sticker in copertina) e spericolatezze strumentali che ne hanno fatto parlare come epigoni di Half Japanese. I testi? All’insegna del divertimento più sguaiato. Non male come esordio.

Ah, pubblica la X! records da Detroit, casa degli impareggiabili Frustrations e Terrible Twos.


lunedì 29 settembre 2008

Parts & Labor – Tour ep 7”

Sono i nostri preferiti i Parts & Labor, non si può negare l’evidenza. Hanno un suono così corposo e riconoscibile che, pur prendendo da molti – noise primi ’90, rigore mathy, ripetitività industrial – rimanda esclusivamente a se stessi. La grana grossa delle chitarre (che non ci sono), la batteria metronomica ed ipercinetica, gli inserti elettronici devianti. E soprattutto il gusto pop, elemento imprescindibile per l’accessibilità di un certo tipo di suoni, altrimenti gratuitamente autoreferenziali.

Le collisioni di tastiere, basso e batteria sono memorabili, così come gli incastri con le melodie vocali, di molto accentuate nell’ultimo periodo dal trio. Capaci – mai come in queste ultime prove – di fondere urgenza noise-rock, cataclismatiche velocità al limite del parossismo e vena melodica che si appiccica in testa e non se ne va più.

In questo 7” in edizione limitata pubblicato dalla tedesca Altin Village, i tre newyorkesi (il batterista Christopher R. Weingarten, fresco dimissionario, era ancora della partita) celebrano il tour europeo con una cavernosa We Were Here, per l’occasione ribattezzata Wir Waren Hier e cantata dall’amico Kurt Beals degli Pterodactyl (compagni di tour). In primo piano le svisate digitali di Dan Friel, mentre il basso di BJ Warshaw e la batteria del summenzionato Weingarten procedono sulla falsariga di un motorik, guarda caso, tedesco. Sul lato opposto l’inedita Skimming Stone si snoda lenta e indolente tra estatiche tastiere e vocals trasognanti, prima di distorcersi e piegarsi su se stessa.